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mercoledì 26 dicembre 2012

Monti sì. Monti no. Intorno a questa controversia si è attorcigliata per settimane l'attualità: trascendendo i confini politici italiani per esondare nello spazio pubblico europeo. L'ex premier ha partecipato qualche giorno fa al vertice del Partito popolare europeo, in cui era presente anche Berlusconi. Durante l'incontro gli sono stati rivolti molti attestati di stima. "Posso solo dire che c'è stato grande sostegno per Monti" ha infatti riferito il presidente dell'Eurogruppo Juncker. 

Il Ppe rappresenta il contenitore che a livello europeo federa le culture politiche di ispirazione conservatrice. L'endorsment ricevuto dai maggiori leader popolari europei implica un valore politico profondo: i conservatori  vorrebbero un loro membro alla guida di un paese fondatore della Cee. Il dilemma "Monti sì/Monti no" trasla da un quadrante emergenziale - la necessità del governo tecnico - verso le lande dell’arena politica, ossia la leadership di una maggioranza elettorale da conquistare tramite elezioni. 

La Grande Crisi è ancora viva; da essa ereditiamo tre nodi tuttora da sbrogliare affinché si possa attivare un paradigma economico-strutturale diverso da quello finanziario: 1) il trasferimento del potere decisionale dal management aziendale verso il capitale finanziario; 2) la nascita di un «capitale impaziente» che punta a generare profitti solo nel breve periodo; 3) l’automazione funzionale nella produzione di ricchezza (derivati, swap ecc...) con conseguente rimpicciolimento dell'utilità della capacità umana di essere coinvolta tangibilmente nella produzione di ricchezza. 

Queste tre mutazioni del capitalismo hanno spazzato via la Piramide weberiana, la famosa "gabbia" che aveva nella stabilità e nella solidità le due stelle polari dell'organizzazione sociale. Negli ultimi tempi, secondo il sociologo Richard Sennet, si è fatta avanti una cultura del capitalismo che predilige il cambiamento personale a discapito del progresso collettivo. In economia questo ha portato a un mutamento nel metodo della realizzazione del reddito. All'epoca del capitalismo industriale si investiva una data quantità di moneta nella produzione di merci per poi ricavarne altra dalla vendita dei beni e servizi prodotti (accumulazione). 

Il capitalismo finanziario, nel produrre ricchezza, elude la condizione intermedia della generazione di merci e investe moneta per realizzare istantaneamente altra moneta. Abbiamo quindi una mutazione genetica delle modalità di accumulazione del capitale. Internamente a questo quadro si sono sbriciolati i sistemi di welfare, le relazioni sociali, il pensiero strategico dell'individuo come pure i poteri normativi delle organizzazioni statuali. 

La grande catastrofe del nostro tempo è raccontata dal fatto che sono in crescita i soggetti che si percepiscono superflui rispetto alla vita economica della società di cui fanno parte, avvertendosi immersi in una rete precaria dentro le cui dinamiche viene a mancare qualsivoglia traccia di coesione sociale e di opportunità di pensare il futuro. Si è consumatori e individui ma sempre meno si è persone e cittadini. Anche la politica è diventata processo consumistico. Resta da comprendere se le forze politiche che sorreggeranno il «montismo» siano portatrici di archetipi alternativi al quadro appena tratteggiato; oppure se non rappresentino i poteri che di più hanno contribuito a stabilire gli scenari dell'attuale crisi. 

Quali sono quindi i confini del «montismo»? Il campo progressista e socialista europeo può farne suoi i contenuti senza smarrire la sua identità esistenziale?  Per questa ragione circoscrivere il perimetro del «montismo» diventa un valido esercizio utile a capire se esiste in Europa un'alternativa progressista capace di essere altro rispetto al liberalismo (conservatore) del Professore; il cui pensiero appare essere l’unico dotato di rispettabilità politica. Tanto da far proseliti a destra come a sinistra, quasi a voler assumere i tratti di una nuova cultura egemonica. 

Uno spunto stimolante per alimentare questo dibattito lo fornisce Maurizio Ferrera,  professore ordinario di Politiche Sociali e del Lavoro presso l'Università di Milano, quando afferma che in Europa sta facendo capolino un neowelferismo liberale in cui si amalgamano alcuni elementi classici delle tradizioni liberaldemocratica, socialdemocratica e in piccola misura cristiano popolare. Elemento cruciale di questa nuovo pensiero è il concetto di investimento sociale: 

La prospettiva dell’investimento sociale ribalta la logica tradizionale: la prima missione del welfare deve essere quella di garantire un «buon inizio» per tutti, dalla fase della prima infanzia; e, man mano che il ciclo di vita procede, sorreggere nel modo più efficace la partecipazione lavorativa, promuovere la mobilità sociale e la lotta alla povertà

Partendo da queste considerazioni è arrivato il momento di battere un colpo per chi, nel Vecchio continente, confida che sia fondamentale intraprendere una confronto sul significato di termini come uguaglianza, libertà, welfare e diritti. Osservati però da una prospettiva di matrice socialista che stia al passo coi tempi e che riesca a decifrarsi nell’Europa della ricostruzione post-crisi e del capitalismo finanziario. L'alternativa sarebbe una sola: un «montismo» senza confini.
martedì 4 dicembre 2012



Secondo gli ultimi dati forniti dall'Istat la disoccupazione nell'Isola si attesta al 14,6 per cento. Se a questo cifra aggreghiamo i disoccupati scoraggiati e tutti i lavoratori messi in cassa integrazione negli ultimi tre anni, il quadro diviene ancora più cupo. Per non parlare del precariato dilagante tra le giovani generazioni. 

Il segretario regionale della Cisl Mario Medde ha dichiarato all'Unione Sarda del 3 dicembre che "non si può uscire dalla crisi peggiore della storia autonomistica sarda, confermata dagli ultimi dati sulla disoccupazione, se lo Stato non riconosce le ragioni del divario strutturale tra l'Isola e le altre regioni d'Italia". 

La Nuova Sardegna riporta del 4 dicembre che "il governo ha confermato ieri che il progetto per portare il metano in Sardegna è slittato. La notizia, fatta trapelare da Sonatrac, la società algerina che partecipa al progetto Galsi, è stata ufficializzata dal sottosegretario allo Sviluppo economico Claudio De Vincenti. Il rappresentante del governo ha spiegato che l’Italia sta definendo le norme specifiche per la realizzazione di un altro gasdotto: si tratta del Tap, (acronimo inglese di Trans-Adriatic Pipeline), un progetto volto alla costruzione di un nuovo condotto che connetterà Italia e Grecia via Albania, permettendo l'afflusso di gas naturale proveniente dalla zona del Caucaso, del Mar Caspio e, potenzialmente, del Medio Oriente. Per il metanodotto Sardegna-Algeria è l’ultimo stop in ordine di tempo: la decisione sarà presa da Sonatrac, (la parte algerina del consorzio) nel maggio del prossimo anno. Ma i ritardi non lasciano presagire una soluzione positiva". 

Intanto che si svolgevano le primarie del centrosinistra mi sono chiesto più volte quali fossero i pensieri dei candidati riguardo al futuro della Sardegna. Silvio Lai, segretario del PD, ha sostenuto al TG3 che dalla  vittoria di Bersani anche l'Isola trarrà dei vantaggi. Questa legittima valutazione mi è sembrata un tantino ottimista, per non dire ingenua. Se non erro il Galsi fu un cavallo di battaglia del duo Prodi-Soru. 

La verità in questa fattispecie non sta ne mezzo, ma svolazza decisamente lontana dalle aspettative positive che vengono riposte in Bersani. I problemi strutturali della Sardegna ricercano delle risoluzioni di grande respiro, ovvero prendere coscienza che con l'attuale sistema normativo dell'Autonomia la Sardegna non verrà fuori mai dalla nessuna tipologia crisi; la cui genesi è indubitabilmente congiunturale ma che nel suo nucleo resta legata all'assenza di reali poteri di autogoverno. 

Il caso Galsi rende perfettamente l'idea delle criticità in campo, ovvero chi decide cosa e con quale obiettivo. E' evidente che per il governo italiano il punto focale non è la mancanza di metano in Sardegna, ma come farlo arrivare nella penisola in base a ben precise strategie geoenergetiche. Ecco perché la sovranità rimane il tema centrale della politica sarda. Ed è su questa centralità che bisogna congegnare un progetto di governo che abbia chiara una singola questione: modificare il rapporto Sardegna-Italia in maniera concreta in termini di poteri di sovranità a favore dell'Isola, mettendo nello stesso tempo i diritti del popolo sardo dinanzi agli interessi dell'Italia. 

Le culture indipendentiste hanno già chiaro questo passaggio. Le altre forze politiche che visioni possiedono? Il nodo da sciogliere è quello della sovranità, ovvero il potere di decidere il nostro futuro basandoci sulle nostre risorse e inserendoci nel contesto economico internazionale. E’ stata la perdita di sovranità da parte della Sardegna a ratificare la non possibile risoluzione delle problematicità poste fin dai tempi della Perfetta fusione e ad impedire, come conseguenza, lo sviluppo dell'Isola. 

Sovranità poi, in questo costituzionalismo del nostro tempo, a molti livelli, può solo significare che non si è estranei alla sfera dove le decisioni massime diventano co-decisoni. E che si è in grado di cogliere le interdipendenze di ogni decisione con un’altra: non più su una scala gerarchica ma in un sistema di convivenze istituzionali. Dentro queste “convivenze istituzionali”, la Sardegna dovrebbe agire con una soggettività giuridica nuova e indipendente. Co-decidendo con gli altri, ma da pari.
lunedì 3 dicembre 2012

Disporre i pensieri in fila è assolutamente impossibile. Il mio cervello non possiede i parametri per decodificare la marea umana che mi gira intorno. Ho caldo. Riflettere diviene una ripetizione debilitante dopo aver provato delle percezioni che hanno convertito il mio essere in un antropico discorde. 

Il tema di questa breve narrazione è: "capire Nairobi". Una metropoli africana di 4 milioni di abitanti. Ci sono sopraggiunto dopo un massacrante viaggio in pullman trasversalmente al Masai Mara. Pertanto appaio qui, per scarabocchiare di Kibera. Una delle più grandi baraccopoli del pianeta. Sarebbe meglio chiamarla Slum. Aver vissuto, anche se per poco, la quotidianità di tale sito non so tuttora che prezzo da pagare comporterà per il resto nella mia esistenza. 

Qualsivoglia parametro valutativo balza lontano dalle mie capacità elaborative. Sono scaraventato dentro un flipper di cui non padroneggio le regole del gioco. Sussisto alla maniera di una pallina ammattita che non trova riparo in nessuna sponda. Non riesco più a comprendere se la mia vita sia giusta o errata. Che cosa mi ha spinto qui? In questo girone infernale disgiunto interi sistemi solari da tutto quello che consideravo fosse il male. La dorsale estetica che le mie retine hanno cristallizzato internamente alla mia persona, è un vagare stipato di interrogativi senza responso. 

Perché? Può la vita essere così disumana? Tollerando senza appello una materialità tanto malsana a un bambino che gioca sull’uscio di casa, mentre una parte di umanità vive nella più completa inconsapevolezza di simili oggettività. Avrà senso agguantare un aereo per Dubai questa sera? Illudendosi del luccichio morboso del petrolio di Allah? Domande come un fiume incastrato in una diga. Non scorgono apertura mentre sbottano nel ventre molle della mia esistenza. 

La vita in uno slum. Odori, colori, suoni e visioni di cui porterai sempre dentro la composizione, come se qualcosa avesse la forza di sostituire le tue membra. Mentre cammino, solo una distesa infinita di case in lamiera e rifiuti. Decine di migliaia di essere umani conducono la loro esistenza in queste stanze buie dell’umanità. Stipati come sardine in un ambiente in cui le colline sono discariche dove trovare cibo. Non trova tregua la mia mente in queste ore pomeridiane. 

Il mio cuore veleggia lontano da me. Il mio centro antropologico è disperso. Sono in fuga da me stesso  mentre bambini spuntano ovunque. La terra rossa d'Africa qui è un labirinto senza uscita. Non so se tornerò più indietro da questo sentiero misterioso che il destino mi ha fatto intraprendere. L'anima è compromessa. Palpare uno slum vuol dire aprire uno squarcio immenso nel degrado urbano. Tutti i miei sensi si ribellano a questa estetica infernale. 

In questo sconquasso sensoriale parto sbaragliato, perché dimentico costantemente che l’illuso di questo scampolo di arco vitale sono proprio io. Mentre intorno a me si alligna e pulsa la tangibilità della vita, che presumibilmente non avevo mai sperimentato con siffatta irruenta pienezza. 

Proprio oggi mi si è mostrata attraverso il suo aspetto più feroce. Nessuno può ottenere risposte a tutto ciò. Moschee e chiese mi ricordano che Dio esiste. Forse. Intorno a me non lo ravviso, e può darsi che non ho neanche bisogno di cercarlo. In questo pomeriggio africano. Indosso un conto aperto con Nairobi. I suoi grattacieli. I suoi parchi. I suoi slum. La sua gente. Cammino e sprofondo nello stesso palpito di terra. Tutti mi sorridono. Sembra che ogni realtà oggettiva di questa capitale scorra usuale. Forse sono proprio io l'elemento stonante. 

Il tassello errato di un mondo che non padroneggio. Sono un bianco che vagabonda tra le strade di Nairobi. Ho 23 anni e per un pomeriggio ho pensato di non essere mai venuto al mondo. Un sorriso di un bimbo mi dona un lampo di vita. "Capire Nairobi". Non sarà per questa volta. Probabilmente non lo sarà mai.