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lunedì 26 novembre 2012

In Catalunya si sono appena svolte le elezioni per designare il nuovo parlamento. A leggere i titoli dei maggiori giornali italiani e spagnoli si deduce che il processo indipendentista abbia subito una battuta d'arresto. Secondo quanto riportato da Repubblica, Corriere della Sera, El Pais e El Mundo il sogno indipendenza non sfonda tra i catalani che sono appena andati a rinnovare il proprio Parlamento. Ma la realtà è differente. 

Convergencia i Uniò, partito costantemente centrista e federalista, si è schierato a sostegno del referendum sull'indipendenza. Suddetta storica svolta, voluta da Artur Mas leader di CiU e presidente uscente della Generalitat, è maturata dopo che il premier spagnolo Rajoy ha respinto l'ipotesi di un nuovo patto fiscale tra Catalunya e Spagna. Argomento da sempre foriero di trazioni tra Barcellona e Madrid. 

Da qui la convocazione da parte di Mas di elezioni anticipate, le quali sono rapidamente divenute un referendum sul seguente quesito: è legittimo o no convocare una consultazione che dia la possibilità alla Catalunya di optare tra il rimanere all'interno dello Stato spagnolo o il rendersi uno stato indipendente all'interno dell'Unione Europea? I partiti politici si sono di conseguenza divisi tra favorevoli e contrari. In base alla distribuzione dei seggi i primi emergono come maggioranza assoluta del Parlament: CiU, Esquerra Republicana de Catalunya (ERC), Candidatura d'Unitat Popular (CuP) e  Iniciativa per Catalunya Verds (ICV) per un totale di 87 seggi su 135

Pur raffigurando culture e sensibilità politiche diverse, tutti questi soggetti hanno in comune l'idea di promuovere la consultazione referendaria. I catalani hanno perciò suffragato, e in modo netto, per la realizzazione del plebiscito in appoggio all’autodeterminazione. CiU e Mas escono ridimensionati dalla consultazione elettorale in quanto perdono una considerevole quantità di seggi (12). Presumibilmente il suo elettorato più moderato e non catalanista ha optato per il Partido Popular o Ciutadans

Ricapitolando possiamo tracciare le seguenti linee di analisi: 1) i partiti pro referendum sono la maggioranza assoluta; 2) indurre un tale referendum riguarda il futuro dell'intera Catalunya, pertanto è politicamente trasversale, sostenibile e votabile sia dalle sinistre indipendentiste che dalla stessa CiU; 3) i voti persi da CiU sono quelli di chi non ha sostenuto la linea di Mas, che è accettata però dalla maggiornanza del partito; 4) indipendentismo e sovranismo sono le culture politiche maggioritarie nel parlamento catalano; 5) l'indipendenza rimarrà un tema centrale a prescindere dalla coalizione di governo che si formerà. Quest'ultimo rimane il vero campo aperto dalla verifica elettorale. 

Quale sarà la coalizione di governo? In Catalunya vige il sistema proporzionale e le maggioranze di governo si formano post voto. La Catalunya ha virato a sinistra. L'elettorato chiede quindi più welfare, maggiore attenzione alle tematiche del lavoro e alle politiche sociali. Infine se si analizza il voto comune per comune, nel 97% dei municipi il totale delle forze soberaniste – compresa Solidaritat Catalana per la Indipendència –  sono la maggioranza. Le fondamenta per alimentare il “sogno indipendentista” sono state poste. Ora la palla passa ai partiti e alla loro reale volontà di alimentare tale processo.


venerdì 23 novembre 2012



Fondo Sovrano: speciale veicolo di investimento pubblico controllato direttamente da un dato governo, che viene utilizzato per investire in strumenti finanziari e altre attività i surplus fiscali o le riserve di valuta estera detenute di un dato paese. Grazie alla missione in Qatar di Ugo Cappellacci, da qualche giorno questa parola è piombata come un asteroide nel discorso pubblico isolano. 

Difatti la Sardegna è entrata nel mirino del fondo sovrano dello stato del Golfo Persico destinando, per un miliardo di euro di finanziamento, le zone di Razza di Juncu (Olbia) e Liscia Ruia (Arzachena) come siti in cui realizzare strutture alberghiere pari a 400 o 550mila metri cubi di cemento e parchi a vocazione turistico-ambientale. Ugo Cappellacci, durante la conferenza stampa tenuta stamane insieme ai sindaci di Arzachena e di Olbia per illustrare i risultati della missione arabica, ha affermato che "il nuovo sistema turistico inizia dai parchi, da quelli che diventeranno i Costa Smeralda Parks e che saranno una sintesi emozionale tra paesaggio, cultura e identità: un luogo in cui sviluppare relazioni armoniche tra l’ecosistema, le aree di insediamento umano, la rete biologica e gli spazi ricreativi". 

L'emiro del Qatar Al Thani, proprietario del fondo, si impegnerà inoltre a sovvenzionare la messa in opera dell'ospedale San Raffaele di Olbia. I fondi sovrani sono costantemente usati come dispositivo di penetrazione commerciale e politica da parte degli stati che li posseggono, come Cina ed Arabia Saudita. Questo fenomeno sta ora travolgendo anche l'Isola. Attirare investimenti è un utile sistema per produrre opportunità di sviluppo. 

L’incognita semmai sta nel comprendere quali siano a) le reali ricadute economiche sul territorio; b) quali sono i parametri che l'investimento deve rispettare per essere approvato; c) determinare se l'impianto normativo, valoriale e culturale ospitante è coerente col processo di implementazione dell’allocamento delle risorse. Storicamente in Sardegna progetti simili sono quasi sempre falliti; o per lo meno hanno trasferito solo limitati frammenti di ricchezza laddove sono stati impiantati (con forti danni ambientali). Esempi classici sono il Piano di Rinascita e la Saras. In questo caso, sappiamo che le eventuali ricadute economiche precipiteranno sulla Gallura, e non su tutta l’Isola come si tende mediaticamente a dire per giustificare globalmente l’operazione. Ma in che termini? Quanti e quali posti di lavoro saranno realizzati per i residenti? 

La Gallura rischia di divenire una specie di enclave del Golfo Persico in Sardegna: mettendo a repentaglio l’esistenza di superfici di inestimabile valore ambientale come Razza di Juncu e Liscia Ruia. Siffatto piano di sviluppo è politicamente e giuridicamente inammissibile in quanto il PPR attualmente operante respingerebbe la costruzione in queste aree. Per cui logica vuole che dovremmo modificare una norma per autorizzare un tale investimento, quando invece dovrebbe essere il contrario. 

Un Fondo Sovrano non investe, acquisisce beni. E quando acquista diventa proprietario del suddetto bene. Dubito che l'emiro AL Thani abbia a cuore le sorti dell'Isola. Il problema di conseguenza è politico. Risulta del tutto evidente che in una congiuntura complicata come questa, un miliardo di euro di investimento può essere decodificato come la manna dal cielo. Queste dinamiche rappresentano l'altra faccia della Grande Crisi, ovvero la crescita economica viene stimolata da grandi strumenti finanziari come i fondi sovrani.

L'opinione pubblica può essere facilmente incline a percepire in modo positivo questo sviluppo. Ma bisogna aver chiaro che il fondo sovrano del Qatar è lo stato del Qatar: perciò si tratterebbe di un investimento statale eseguito in Sardegna, con tutte le ricadute geopolitiche del caso. Qui non si tratta di acquistare una squadra di calcio o finanziare un ospedale, qui si tratta di delegare a uno soggetto terzo (il Qatar) il compito di sviluppare una data regione geografica. 

Ma non sarebbe più logico portare fino in fondo la battaglia sulle entrate e reperire investimenti attraverso la modulazione della fiscalità? Tutto ciò nel tentativo di plasmare uno sviluppo partendo dalle nostre risorse, per poi capire come e con chi creare sinergie economiche. Compreso il caso di investimenti esteri e sovrani supportati però da chiari criteri di ricezione. Non vorrei ritrovarmi in una Sardegna in cui è impossibile costruire una moschea mentre vendiamo la Gallura ad un emiro. E' questo quello che ci aspetta? Allahu Akbar.  
mercoledì 21 novembre 2012


Ti hanno uccisa e sepolta nei titoli dei loro giornali, madre. Come posso perdonare, madre? Come può Jenin perdonare? Come si può portare questo fardello? Come si può vivere in un mondo che volta le spalle a questa ingiustizia da così tanto tempo? E' questo che significa essere palestinesi, madre?

Ogni mattina a Jenin di Susan Abulhawa


Le notizie che in questi giorni giungono dalla Striscia di Gaza stanno sconvolgendo l'opinione pubblica mondiale. Al Jazeera trasmette ininterrottamente le immagini della strage che ha visto coinvolta la famiglia al-Dalou, spazzata via da un raid aereo in cui hanno perso la vita cinque donne, quattro bambini di pochi anni e tre uomini. 

Tutte vittime innocenti dell’attacco aereo-navale che Israele ha scagliato contro i miliziani di Hamas, con l’obiettivo di interrompere il lancio di missili verso città e villaggi israeliani. Gli al-Dalou sono diventati l’emblema di quello che sta avvenendo, per l’ennesima volta, nella Striscia di Gaza; dove a pagare il prezzo più alto di questo decennale conflitto sono quasi sempre innocenti e bambini palestinesi. 

In queste angosciosi momenti, una potenza di fuoco tremenda si sta abbattendo su questo margine di terra: 360 km²; 1.657.155 di abitanti; 4,587 ab./km². Queste sono le misure geofisiche e demografiche della Striscia di Gaza. L’inferno sulla terra indossa queste dimensioni. Un disastro umanitario ad alta densità abitativa. Qualsiasi bomba che precipita è un sinistro preavviso di morte per ogni individuo che calpesta questa superficie insanguinata. 

Le bombe non fanno differenziazioni tra miliziani e civili: come in tutte le guerre la morte che piove dall’alto o che arriva dal mare è un elemento democratico. E’ amica di tutti e nemica di nessuno. I razzi lanciati da Hamas posseggono la stessa logica militare delle bombe di Tel Aviv, ma la sproporzione delle forze in campo è mastodontica. 

Dal 1948 in poi Gaza è stata governata prima dall'Egitto (1948-1967), poi occupata da Israele in seguito alla Guerra dei sei giorni (1967-1994), è rientrata in mano palestinese sotto la guida dell'OLP dopo gli accordi di Oslo (1994-2007) e infine, in seguito alle elezioni del 2007, è amministrata da Hamas la quale è subentrata ad al Fatah. Una lunga storia di cui stiamo vivendo solo l'ennesimo capitolo. La soluzione "due popoli due stati" non è mai stata così distante come lo è al momento. 

L'attuale governo di Benjamin Netanyahu non ha mai manifestato concreti segnali di una eventuale trattativa di pace con la controparte palestinese. Ma quale è ad oggi questa controparte? La moderata Al Fath guidata da Mahmoud Abbas e radicata nella sola Cisgiordania? Oppure  Hamas, la cui organizzazione non riconosce l’esistenza anche futura dello Stato di Israele? Il nodo della dualità rappresentativa va sciolto prontamente se si vorrà conseguire una via verso qualche tavolo di discussione diplomatica. 

Israele ha il diritto di proteggere i suoi cittadini come di esistere secondo quanto stabilito dal diritto internazionale. Ma questo fondamentale assunto non può in ogni caso giustificare le enormi ingiustizie che il popolo palestinese ha subito dal 1948 fino ai giorni nostri. Spesso con la complicità dei paesi arabi. Come non è pensabile slegare quello che sta succedendo in queste ore dal problema politico dei territori occupati da Israele dal 1967 in poi, inasprito dalla continua costruzione di nuove colonie in territorio palestinese. 

Non bisogna neanche dimenticare le lamiere contorte degli autubus in fumo fatti saltare in aria dalla Jihad grazie agli attacchi suicidi dei suoi martiri. In quei casi sono stati innocenti israeliani a morire e quell'orrore si è profondamente radicato nella memoria collettiva di questo popolo. 

In base gli accordi di Oslo, Israele mantiene su Gaza il controllo dello spazio aereo, le acque territoriali, l'accesso off-shore marittimo, l'anagrafe della popolazione, l'ingresso degli stranieri, le importazioni e le esportazioni, nonché il sistema fiscale. Dopo l'operazione Piombo Fuso del 2008 la morsa della sindrome da check point si è propagata, peggiorando in maniera drammatica le condizioni di vita degli abitanti della Striscia. Lo scenario attuale sopra ritratto è reso ancora più complicato dalle seguenti variabili:

1) La primavera araba ha predisposto una grande trasformazione degli equilibri geopolitici mediorientali. In Egitto è ascesa al potere l'ala moderata dei Fratelli Musulmani - di cui Hamas è una diramazione - i quali fino ad ora non sembrano voler comunque rinunciare al trattato d pace che li lega ad Israele;

2) L'Iran, finanziatore di Hezbollah e Hamas, è percepito da Israele non solo come una minaccia continentale ma anche confinate per via dell'appoggio militare di Teheran alle citate organizzazioni;

3) A gennaio gli israeliani dovranno recarsi alle urne con un sistema politico proporzionale puro che potrebbe produrre una instabilità coalizionale immersa in un clima geopolitico che si preannuncia caldo;

4) La Turchia, divenuta ormai una potenza regionale, non è più un alleato su cui Tel Aviv può contare con certezza e non sono certo una novità i rapporti alquanto freddi tra Obama e Netanyahu;

Tutte queste variabili, insieme alla  confusione di leadership tra i palestinesi, possono produrre conseguenze disastrose se Egitto, USA, Lega Araba e Unione Europea non costringeranno le parti a sedersi al tavolo della trattativa. Non sarà facile, in questo scenario, condurre il governo israeliano ad una tregua duratura. 

Netanyahu dovrebbe avere l’intelligenza politica di cessare le operazioni militari per dare la possibilità ad Hamas di fermare il lancio di missili. Questa soluzione/compromesso potrebbe rappresentare una prima via d’uscita utile per alleviare le sofferenze degli abitanti della Striscia ed abbozzare una negoziazione per un cessate il fuoco di lungo periodo.
domenica 11 novembre 2012

Istanbul. Il tuo amore è ambito da due continenti. Da sempre in lotta per possedere le tue grazie. Consumata dai secoli, arde senza tempo la fiamma della tua grandezza. Asia ed Europa smembrate dal Bosforo, combattono per una tua carezza di pochi attimi. Ogni notte. Nella speranza di non abbandonarti più, vagando senza meta nelle strade buie dell’antichità delle tue sembianze. Istanbul non si lascia conquistare. 

Diserta dagli sguardi. Piena di orgoglio per la sua bellezza inconscia, affonda le sue radici estetiche nel misticismo dei mosaici bizantini, nei riti della stella di David e nel richiamo zuccherato dei suoi muezzin. Minareti si scagliano tirannici verso il cielo mentre Istanbul sonnecchia sulle battige dell'Eurasia. Tra le sue vie si fondono i visi di ogni carovana immaginabile. Direzione: Samarcanda, Venezia o Alessandria d'Egitto. L'eredità imperiale rovesciata nei fasti dei palazzi dei sultani. Istanbul è lì. Ebraismo, Islam e Cristianesimo. 

Un’occhiata maliziosa verso il Corno d'Oro. Tutto è bagliore. Qualsiasi profumo è trasportato dal vento come un dono pregiato. Succhi di melograno ci accompagnano verso il Mediterraneo. Le spezie sbottonano il cammino verso la Mesopotamia. Tutto senza che niente si muova realmente, codificato nello scorrere dei secoli solidificati nelle ferite di Costantinopoli. Chi sei tu Istanbul? Tutti noi. Come Gerusalemme. Nelle chiese armene il lascito macabro dei massacri dell'Oriente cristiano. Hagia Sophia. Regina delle tenebre. Bisanzio. Mistero. Nel cuore della metropoli recente. 




Distesa di fronte al mare blu di Maometto scruti la vastità dei tuoi inconfessati sentieri. Amarti è semplice. Istanbul. Non c'è passo nel tuo ventre che non calpesti il nostro passato. Non c'è goccia di sangue che non arrivi nelle tue vene. Basta un tuo tramonto per trafiggere l'animo delle genti. Divisa dai mari, dalla terra e dalla storia non appartieni a nessuno. Ma sei il centro del mondo nella tua unica essenza multiforme.
giovedì 8 novembre 2012



Un signore americano con cui ho condiviso un taxi ad Istanbul mi dichiarò che Obama e Romney erano solo due facce della stessa medaglia. In sostanza, tra i due non c'era nessuna discrepanza sostanziale: per questo motivo non si sarebbe recato alle urne. Astenuto. Non sostengo la tesi del barbuto compagno di taxi. 

Al contrario, sono convinto che tra i due sussistano delle differenze concrete. Sicuramente avrei votato Obama. I suoi primi quattro anni alla Casa Bianca non sono stati né agevoli né privi di sbagli. Di sicuro è stato fatto troppo poco per contrastare il potere della lobby finanziaria. La legge voluta da Clinton per abrogare le disposizioni del Glass-Steagall Act del 1933, che prevedevano la separazione tra attività bancaria tradizionale e investment banking, non è stata mai realmente riformata così come previsto dalla Volcker rule

In politica estera si sono succeduti momenti alti (discorso del Cairo) e bassi (rapporti con la Cina), rimanendo sempre in linea con il (criticabile) modus operandi della politica estera americana la quale resta un elemento bipartisan nella storia degli Stati Uniti. In ogni caso Obama ha appoggiato la Primavera araba e tentato in tutti i modi di scongiurare un conflitto militare con l'Iran, nonostante le pressioni di Israele. 

Sul versante interno ha varato un importante riforma sanitaria che ha ampliato lo spettro dei cittadini che possono curarsi senza dover per forza essere coperti da una costosa poliza assicurativa; ha salvato migliaia di posti di lavoro in Ohio nel settore dell'automobile; ha varato politiche monetarie espansive grazie al quantitative easing evitando un innalzamento del tasso di disoccupazione. Ha fatto oggettivamente poco per l'ambiente e non ha assolutamente scalfito il sistema delle lobby. Bisogna tuttavia riconoscere che per una "presidenza di crisi" era problematico aspettarsi di più. 

Ma ora Obama non può più sbagliare. Deve fare qualcosa in più e soprattutto regolarizzare in maniera più risoluta il mondo del turbocapitalismo finanziario. Intorno alla sua rielezione si è sedimentato un blocco sociale nuovo. Un elettorato in espansione che potrà diventare un punto di riferimento delle sinistre anche in Europa, e che è costituito da: una società multirazziale e multiculturale, composta per di più da ceti medio bassi e riflessivi che percepiscono nello Stato il soggetto preposto alla ridistribuzione del reddito nazionale. 

Un nuova classe di cittadini formato da operai dell’industria, artigiani, lavoratori immateriali sempre più flessibili, donne, single, migranti, gay e giovani generazioni. Tutti soggetti messaggeri di moderni diritti di cittadinanza. E che appaiono accumunati da una complessiva critica al sistema economico di stampo liberista lasciatoci in eredità da Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Questo appare il dato più rilevante che sopraggiunge dalla rielezione di Obama. 

Pur se con le dovute differenze, questo vento presto arriverà anche in Europa. La domanda è se le sinistre del Vecchio Continente avranno la capacità di cogliere questi segnali per trasformarli in policy. Lo scontro tra finanza e democrazia si gioca anche su questo terreno. Renzi (ma è di sinistra?), Bersani o Vendola sapranno rappresentare le istanze di questo possibile nuovo bacino elettorale? La stessa cosa vale per Hollande e Steinbrueck. E' invece Syriza il nucleo primordiale di una nuova possibile via europea per una sinistra che non sia subalterna al capitale finanziario ma che non sia più afflitta da "nostalgismo post-sovietico"? 

Obama non ha di sicuro dimostrato il contrario non applicando la Volcker rule. Ma chi lo ha votato lo spingerà di sicuro verso questa direzione. Su questo si misurerà il giudizio sui prossimi quattro anni di presidenza democratica alla Casa Bianca.