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giovedì 8 novembre 2012
Un signore americano con cui ho condiviso un taxi ad
Istanbul mi dichiarò che Obama e Romney erano solo due facce della stessa
medaglia. In sostanza, tra i due non c'era nessuna discrepanza sostanziale: per
questo motivo non si sarebbe recato alle urne. Astenuto. Non sostengo la tesi
del barbuto compagno di taxi.
Al contrario, sono convinto che tra i due sussistano
delle differenze concrete. Sicuramente avrei votato Obama. I suoi primi quattro
anni alla Casa Bianca non sono stati né agevoli né privi di sbagli. Di sicuro è
stato fatto troppo poco per contrastare il potere della lobby finanziaria. La legge voluta da Clinton per abrogare le
disposizioni del Glass-Steagall Act del 1933, che prevedevano la separazione
tra attività bancaria tradizionale e investment banking, non è stata mai
realmente riformata così come previsto dalla Volcker rule.
In politica estera si
sono succeduti momenti alti (discorso del Cairo) e bassi (rapporti con la Cina),
rimanendo sempre in linea con il (criticabile) modus operandi della politica
estera americana la quale resta un elemento bipartisan nella storia degli Stati
Uniti. In ogni caso Obama ha appoggiato la Primavera araba e tentato in tutti i
modi di scongiurare un conflitto militare con l'Iran, nonostante le pressioni
di Israele.
Sul versante interno ha varato un importante riforma sanitaria che ha
ampliato lo spettro dei cittadini che possono curarsi senza dover per forza
essere coperti da una costosa poliza assicurativa; ha salvato migliaia di posti di
lavoro in Ohio nel settore dell'automobile; ha varato politiche monetarie
espansive grazie al quantitative easing evitando un innalzamento del
tasso di disoccupazione. Ha fatto oggettivamente poco per l'ambiente e non ha
assolutamente scalfito il sistema delle lobby. Bisogna tuttavia riconoscere che
per una "presidenza di crisi" era problematico aspettarsi di più.
Ma
ora Obama non può più sbagliare. Deve fare qualcosa in più e soprattutto
regolarizzare in maniera più risoluta il mondo del turbocapitalismo
finanziario. Intorno alla sua rielezione si è sedimentato un blocco
sociale nuovo. Un elettorato in espansione che potrà diventare un punto di riferimento
delle sinistre anche in Europa, e che è costituito da: una società
multirazziale e multiculturale, composta per di più da ceti medio bassi e
riflessivi che percepiscono nello Stato il soggetto preposto alla
ridistribuzione del reddito nazionale.
Un nuova classe di cittadini formato da
operai dell’industria, artigiani, lavoratori immateriali sempre più flessibili,
donne, single, migranti, gay e giovani generazioni. Tutti soggetti messaggeri
di moderni diritti di cittadinanza. E che appaiono accumunati da una complessiva
critica al sistema economico di stampo liberista lasciatoci in eredità da
Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Questo appare il dato più rilevante che sopraggiunge
dalla rielezione di Obama.
Pur se con le dovute differenze, questo vento presto
arriverà anche in Europa. La domanda è se le sinistre del Vecchio Continente avranno
la capacità di cogliere questi segnali per trasformarli in policy. Lo scontro
tra finanza e democrazia si gioca anche su questo terreno. Renzi (ma è di
sinistra?), Bersani o Vendola sapranno rappresentare le istanze di questo
possibile nuovo bacino elettorale? La stessa cosa vale per Hollande e
Steinbrueck. E' invece Syriza il nucleo primordiale di una nuova possibile via europea per
una sinistra che non sia subalterna al capitale finanziario ma che non sia più afflitta da "nostalgismo post-sovietico"?
Obama non ha di
sicuro dimostrato il contrario non applicando la Volcker rule. Ma chi lo ha
votato lo spingerà di sicuro verso questa direzione. Su questo si misurerà il
giudizio sui prossimi quattro anni di presidenza democratica alla Casa Bianca.
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