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domenica 30 agosto 2015
In Gaelico è Béal Feirste, ma il suo nome anglicizzato è Belfast. Capitale dell'Irlanda del Nord, ovvero un lembo d'Europa in cui un secolare conflitto coloniale ancora non ha irrevocabilmente trovato una soluzione finale. Come possiamo definire questa parte dell'isola d'Irlanda? Ulster o Eire? Ponendomi continuamente questo quesito ho attraversato Falls Road e Shankill Road, tentando di comprendere come sia possibile convivere dentro contraddizioni storiche così forti in pochi metri quadrati. Le appartenenze comunitarie di questa città sono circoscritte dentro le linee di demarcazione identitarie tra le più pericolose dell'esistenza umana: nazione e religione.
Belfast ti ingarbuglia per mezzo delle sue bizzose e insanguinate traiettorie toponomastiche. Oltrepassasi un semplice incrocio stradale e il concetto interpretativo di quello che hai intorno muta nelle sue radici più profonde. Dal tricolore della Repubblica di Irlanda sventolante ad ogni palo della luce si (tra)passa ad un eguale insistente sventolio, ma della Union Jack. Tutto in pochi attimi. Millesimali istanti che condensano una coesistenza che appare complicata già nella sua rappresentazione estetica, la quale coagula rapidamente nella demarcazione nazionalista e religiosa dei quartieri in cui (co)abitano le due comunità: unionista e repubblicana.
La baraonda toponomastica trova spazio anche, e soprattutto, nell'identificazione geografica dell'Ulster come sinonimo significativo dell'Irlanda del Nord. Infatti al suo interno, storicamente, sono comprese nove contee. Quelle sotto la sovranità del Regno Unito sono sei, quelle amministrate dalla Repubblica d'Irlanda tre. Confusione. Dove mi trovo? Sono un suddito della Regina o un cittadino della Repubblica? Tutto ciò dipende dal quartiere o dalla contea?
Belfast incontra il mare con il fiume Lagan in maniera silenziosa e timida. Le sue strade sembrano vuote anche quando la gente si riversa su di esse. Una città sospesa che ti guarda costantemente dallo spioncino. Si disvela al mondo tramite i murales o con le lapidi commemorative delle vittime dei Trouble. Sono ricordi vivi i fiori freschi che ricordano i morti protestanti a Shankill Road. Non è il passato. E' l'oggi. O peggio, il passato che ritorna ogni volta che ci si passa davanti.
Il malinconico fascino di Belfast non conosce confini metafisici: è intimista non materiale. I suoi costanti silenzi sibillini sono come lame che tagliano l'animo di chi cammina per le strade di questa città un tempo ricchissima. Una capitale globale dell'industria che ha saputo costruire una delle opere ingegneristiche più grandi della storia: il Titanic. Il suo naufragio segnò la fine di un'epoca in cui l'Homo Faber si credeva invincibile.
Belfast. Una città in cui i muri raccontano e vivono in simbiosi con i suoi abitanti. Muri organici. Violenti. Ma anche pieni di speranza.
Non li dimentichi più. Sono essi infine il tempio della coscienza in cui cercare le risposte del perché l'Irlanda non sia unita? Non lo so. Un murales non regala facili risposte. Narra. Ed essi sono la narrazione di questo luogo. Bisogna osservarli in silenzio. Ad ognuno poi spetta l'intima presa di coscienza nel dirimere il groviglio sentimentale che Belfast genera nelle persone che la visitano. E che imparano a capirne la sofferenza nascosta.
Belfast ti ingarbuglia per mezzo delle sue bizzose e insanguinate traiettorie toponomastiche. Oltrepassasi un semplice incrocio stradale e il concetto interpretativo di quello che hai intorno muta nelle sue radici più profonde. Dal tricolore della Repubblica di Irlanda sventolante ad ogni palo della luce si (tra)passa ad un eguale insistente sventolio, ma della Union Jack. Tutto in pochi attimi. Millesimali istanti che condensano una coesistenza che appare complicata già nella sua rappresentazione estetica, la quale coagula rapidamente nella demarcazione nazionalista e religiosa dei quartieri in cui (co)abitano le due comunità: unionista e repubblicana.
La baraonda toponomastica trova spazio anche, e soprattutto, nell'identificazione geografica dell'Ulster come sinonimo significativo dell'Irlanda del Nord. Infatti al suo interno, storicamente, sono comprese nove contee. Quelle sotto la sovranità del Regno Unito sono sei, quelle amministrate dalla Repubblica d'Irlanda tre. Confusione. Dove mi trovo? Sono un suddito della Regina o un cittadino della Repubblica? Tutto ciò dipende dal quartiere o dalla contea?
Belfast incontra il mare con il fiume Lagan in maniera silenziosa e timida. Le sue strade sembrano vuote anche quando la gente si riversa su di esse. Una città sospesa che ti guarda costantemente dallo spioncino. Si disvela al mondo tramite i murales o con le lapidi commemorative delle vittime dei Trouble. Sono ricordi vivi i fiori freschi che ricordano i morti protestanti a Shankill Road. Non è il passato. E' l'oggi. O peggio, il passato che ritorna ogni volta che ci si passa davanti.
Il malinconico fascino di Belfast non conosce confini metafisici: è intimista non materiale. I suoi costanti silenzi sibillini sono come lame che tagliano l'animo di chi cammina per le strade di questa città un tempo ricchissima. Una capitale globale dell'industria che ha saputo costruire una delle opere ingegneristiche più grandi della storia: il Titanic. Il suo naufragio segnò la fine di un'epoca in cui l'Homo Faber si credeva invincibile.
Belfast. Una città in cui i muri raccontano e vivono in simbiosi con i suoi abitanti. Muri organici. Violenti. Ma anche pieni di speranza.
Non li dimentichi più. Sono essi infine il tempio della coscienza in cui cercare le risposte del perché l'Irlanda non sia unita? Non lo so. Un murales non regala facili risposte. Narra. Ed essi sono la narrazione di questo luogo. Bisogna osservarli in silenzio. Ad ognuno poi spetta l'intima presa di coscienza nel dirimere il groviglio sentimentale che Belfast genera nelle persone che la visitano. E che imparano a capirne la sofferenza nascosta.
martedì 11 novembre 2014
L'80,7 per cento di votanti ha detto sì all'indipendenza della Catalunya. Oltre 2,2 milioni sui 4,5 aventi diritto. La media dei votanti durante le precedenti elezioni ufficiali è stata di 3,5 milioni, a cui va aggiunto un dato importante, ovvero che nell'attuale Parlamento catalano le forze politiche a favore dell'indipendenza posseggono già la maggioranza dei seggi.
Questo vuol dire che in un'eventuale consultazione referendaria simile a quella scozzese in Catalunya, con tutta probabilità, vincerebbe il sì. Il sistema politico catalano è composto da partiti sovranisti ed indipendentisti di centrodestra, centrosinistra o più smaccatamente di sinistra. Il campo progressista è egemonizzato dalle forze che sono favorevoli, o quanto meno non sarebbero contrarie, all'istituzione di un referendum sul diritto all'autodeterminazione della Catalunya. ERC, CUP e ICV-EUiA vantano trentasette deputati, mentre il PSC diciannove. Il segnale sembra chiaro: c'è stata una saldatura tra progressismo e indipendentismo/sovranismo che ha dato vita ad una nuova idea di ripensare la sinistra, il rapporto con il territorio e l'Europa. E quindi anche le istanze della cittadinanza, dei diritti e della rappresentanza.
Questa nuova connessione trova uno sbocco importante nel Parlamento europeo grazie al gruppo The Greens/European Free Alliance, in cui si prova a fare sintesi tra una visione di una società sostenibile e progressista, un'Europa solidale ed una democrazia che includa le istanze dei popoli nella costruzione di un'Unione europea che non sia più ostaggio di banche e potentati finanziari. Quindi una sinistra secondo la quale al mercato non dovrebbe mai essere consentito di mettere a rischio la fruizione dei diritti sociali fondamentali, come di tutte le libertà politiche e civili, compreso il diritto all'autodeterminazione dei popoli.
Dentro questo scenario due domande divengono dirimenti. Il ruolo della sinistra in Sardegna si esaurisce con il PD renziano così come sta accadendo in Italia? In Sardegna è possibile costruire un soggetto politico progressista simile a Esquerra Republicana de Catalunya, che occupi lo spazio politico lasciato libero da un PD sempre più orientato al centro?
Nell'Isola il campo progressista ha sicuramente in potenza l'occasione storica di ripensarsi come una forza di governo che abbracci i concetti presenti nel manifesto politico del gruppo europarlamentare The Greens/European Free Alliance, al cui interno confluiscono partiti politici di matrice ambientalista ed ecologista e che riunisce i movimenti autonomisti, indipendentisti e regionalisti di centro-sinistra delle nazioni europee senza Stato.
Un soggetto politico moderno, leggero e che abbia come obiettivo politico immediato da una parte la conquista di poteri di sovranità pubblici in materia fiscale, energetica, ambientale, trasporti e patrimonio culturale, dall'altra la rappresentanza diretta della Sardegna nel Parlamento europeo con sette deputati. Tale partito dovrebbe avere come motivo fondante della sua azione il guidare la Sardegna verso un referendum sull'indipendenza, allo stessa maniera dello Scottish National Party.
Un contenitore in cui si possano riconoscere i comitati che in questi anni hanno difeso il territorio dalle speculazioni delle multinazionali, in cui i precari possano trovare un punto di riferimento nella difesa dei propri diritti, dentro il quale le PMI trovino ascolto e rappresentanza per un governo sostenibile dell'economia, in cui i beni comuni siano alla base dell'economia dei commons e internet sia un'infrastruttura grazie alla quale creare sempre più efficienza nel governo della società. Un partito progressista: ancorato alla matrice culturale della sinistra europea, alle politiche più avanzate in materia di sanità ed istruzione pubblica e sensibile ad un sistema di welfare vicino alle categorie più svantaggiate della società. Ma soprattutto un Partito di Sardegna, europeista e che difenda e i diritti storici del popolo sardo. Costruito con la funzione di mediare tra questi diritti e la globalizzazione.
Una forza politica che abbia chiaro che è finita l'era in cui all'aumento della produttività corrispondeva l'accrescimento dei posti di lavoro e che sia quindi capace di creare nuovi sistemi di protezione sociale abbinati a nuovi modi di produrre ricchezza: una crescita economica qualitativa ed inclusiva e non quantitativa e verticale come quella imposta dalla finanza globale.
Una forza politica che si faccia portatrice di una visione della vita sostenibile piuttosto che orientata al consumismo più sfrenato. La creazione di questo grande soggetto dovrebbe essere materia di intenso dibattito se davvero non vogliamo che la sinistra in Sardegna diventi la brutta copia del renzismo.
domenica 20 aprile 2014
Con l’inizio della XV legislatura il Consiglio regionale della Sardegna si appresta ad affrontare una problematica traversata nel deserto. Il quadro macroeconomico condensa in numeri statistici il dramma che quotidianamente viene vissuto dal popolo sardo. Durante le sue dichiarazioni programmatiche il Presidente Pigliaru ha evidenziato come “il prodotto interno lordo regionale è diminuito di circa il 7% rispetto al 2008 tornando, a prezzi costanti, a livello di oltre 10 anni fa. In pochi anni sono stati cancellati oltre 80mila posti di lavoro. Oggi un sardo su due, nella fascia di età tra i 20 e i 64 anni, non lavora”.
Pertanto la priorità assoluta della nuova maggioranza di centrosinistra non potrà che essere quella di fornire risposte materiali alla emergenza lavoro. Su questo punto non ci possono essere irresolutezze. Oltre al dramma disoccupazione, sussiste un'altra complicazione a cui questa legislatura è chiamata a dare una risoluzione: il ruolo del Consiglio regionale.
Nella precedente Giunta Cappellacci la funzione degli assessorati ha avuto una forza prevalente nella fase costruttiva e attuativa delle policy. Il potere legislativo e quello esecutivo sono stati fortemente concentrati nelle mani degli assessori; delegando i consiglieri ad un ruolo di “controfirma” dell’operato della Giunta regionale. Pregiudicando in tal modo il confronto democratico in aula consiliare, ovvero il luogo deputato alla rappresentanza del popolo sardo.
Su questo delicato passaggio Pigliaru è stato molto chiaro, intervenendo a sostegno di siffatta variazione di paradigma. Il Consiglio regionale deve assurgere alla funzione di controllo e collaborazione rispetto all’operato degli assessorati. Consegnando a questi ultimi le indicazioni programmatiche essenziali nella redazione delle leggi: predisponendole, discutendole e votandole. L’attitudine del potere esecutivo ad appropriarsi delle funzioni di quello legislativo è un ostacolo al regolare funzionamento istituzionale che affligge numerose democrazie contemporanee.
L’Assemblea legislativa sarda non è esente da questa inclinazione. In modo speciale da quando è in vigore l’elezione diretta del Presidente della Regione. Tale visione risulta di fondamentale rilevanza nel momento in cui la Giunta dovrà sviluppare la spinosa questione del mancato adeguamento da parte dello Stato dei limiti di spesa del patto di stabilità consentiti alla Sardegna. Così come previsto dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 118/2012. Secondo i calcoli presentati da Pigliaru l’ampliamento della capacità di spesa crescerebbe di 1200 milioni di euro se quella sentenza venisse osservata. In tale scenario il Consiglio regionale svolge un ruolo decisivo affinché lo Statuto di Autonomia venga rispettato nella sua pienezza costituzionale. A tal proposito una riflessione è doverosa.
Giunta e Consiglio devono impegnarsi reciprocamente nella riscrittura di una nuova Carta Costituzionale dei Sardi che doti la Sardegna di più rilevanti poteri di poteri di sovranità pubblici. Dalla fiscalità ai trasporti. I diritti del popolo sardo non possono essere esercitati a pieno se non si viene fuori dal sistema normativo ricevuto in eredità dall’Autonomia. La vertenza sui limiti di spesa è sacrosanta.
Tuttavia risulterebbe sbagliato considerare un successo su questo versante come talismano risolutivo rispetto ad uno Statuto di Autonomia del tutto inadeguato per le sfide che ci aspettano per il futuro. Su questo punto aspettiamo maggiore chiarezza.
martedì 1 ottobre 2013
DRUNK ON THE CENTRAL LINE
Forme notturne di cooperazione urbana. Rachel sale totalmente sbronza sulla tube. Central Line. Gongola sui tacchi. E' subito lapalissiano che non ci sarà rimedio alla sua andatura spicciola. Siamo pochi nel vagone. La tube corre verso la zona 3 della sconfinata metropoli. Senza fiatare, ci spostiamo per farla stendere sui sedili. Tutti pensiamo che possa essere un gesto utile. Ma non basta. Come se sedotta da Morfeo, si addormenta in un sol fiato. Il fidanzato, imbarazzato, non riesce a farla scendere ad Holland Park Station. Rachel non si regge in piedi e rimane infossata nei sedili blu della Central Line. Incollata. Scatta nuovamente la solidarietà metropolitana. La prossima stazione è l'ultima utile per rientrare verso casa. Così confessa il fidanzato. Serve acqua. Rachel beve. La mettiamo seduta perchè distesa è persa e irrangiungibile a noi umani. Riusciamo a farla scendere, traballante, a Shepherd's Bush Station. Il ragazzo ringrazia mentre la tube continua verso Ealing Broadway. Loving London.
UNA MATTINA A LONDRA. RESOCONTO POSTCOLONIALE.
Oggi sono off. 32 gradi. Londra assume le sembianze isteriche di una megalopoli meridiana. Decido di andare a Southall, sobborgo suburbano i cui abitanti provengono quasi tutti dalle regioni del Punjabi indopachistano. Per curiosare un pò. Adoro la dispersione culturale che la metropoli globale cova nelle sue viscere più periferiche. Prendo il bus. Il 607. Superata West Ealing, mi accade una cosa che non mi succedeva da tempo. Sono l'unico bianco, o wasungu come mi dicevano in Tanzania, presente nel tragitto verso l'Asia postcoloniale. Ma è tutto normale. Nessuna febbre occidentale penetra nei miei pensieri. L'altro è sempre stato me stesso. Arrivo a destinazione. Scendo. I segnali stradali, nella stazione principale, sono in Inglese e Punjabi. Le radici possono impiantarsi anche dentro il cemento più duro. Percorro la via principale. Sui marciapiedi si annida ogni tipo di merce e cibo. Dai negozi di dischi soggiungono, scintillanti, le melodie del sud est asiatico. Centinaia di DVD creati dall'industria cinematografiga di Bolliwood vengono esposti ovunque. I sari penzolano in ogni dove accecandomi con i loro colori. Gioielli dorati fanno la loro sfilata immobile sotto gli occhi delle ragazze prossime al matrimonio. Ogni tanto sfreccia qualche macchina con la musica a tutto volume di chissà quale famoso cantante punjabi. Ma sono a Londra o in venti minuti sono arrivato in città come Lahore o Amristar? Cammino. Indù, sikh e musulmani hanno le stesse sembianze ma diverse sono le loro forme di vita urbana. Un'unica etnia spaccata dalla religione e dal colonialismo. E' il mese del Ramadan e i ristoranti di Allah sono quasi vuoti. Incontro una moschea in costruzione. Manca il minareto. A un certo punto non resisto e mi catapulto in un negozio di dolci. Compro il Patisa. Un dolce biscottato tipico nel nord dell'India. Torno a casa. Ho fame. Il menu dice: riso indiano, fishcake con salsa dolce thailandese e Patisa. Londra è così. Puoi avere il mondo a portata di mano e di piatto. Basta predere il 607.
lunedì 20 maggio 2013
Ealing Common, 1st of May 2013
Camminando verso la tube di Ealing Common, West London. All'improviso emergono dei libri addormentati su di un muretto. Da prendere gratis. Un regalo con genesi ignota tra i palazzi della metropoli globale. Cemento e cultura urbana confezionati nello stupore dell'avvenimento. Oggi a Uxbridge. London.
Walking to the tube of Ealing Common, West London. Suddenly arise a lot of dumb books placed on a low wall. To be taken for free. A gift with an unknown genesis between the palaces of the huge city. Cement and urban culture wrapped in the wonder of the event. Today in Uxbridge. London.
Tottenham Court Road Station, 6st of May 2013
La tube di Londra. Con le sue scale mobili, i suoi ascensori, le sue ansie sotterranee, le sue corse per non perdere l'ultimo treno verso casa, i suoi milioni di passeggeri che ogni giorno ne compongono il puzzle esistenziale. Nella tube aspetti sempre che la superficie arrivi presto. Ma a volte capita di sentire tra i suoi cunicoli di cemento e ferro No Surprise dei Radiohead: cantata da una voce bellissima. In questi casi lasci passare il treno e ti fermi ad ascoltare. La superficie può aspettare ed un altro treno passerà.
The London tube. With its escalators, lifts, underground anxieties, races in order to not miss the last which take you home, millions of passengers that every day put together the existential puzzle. In the tube, you always spend your time expecting that the surface will come soon. But sometimes you can hear, among its cement and iron burrows, the Radiohead song No Surprise: sung by a beautiful voice. In these cases, let the train pass and just stop yourself listening. So the surface can wait for a whike and another train will pass.
Camden Town and China Town, 10st of may 2013
1) I love Hawley. Un pub dove nel piano di sopra suonano i dischi degli Stone Roses e nel bagno dei maschi quelli di Bob Marley. Nel cuore di Camden e sotto il cielo grigio della città globale. What else? 2) Ho scoperto che la mappa della tube, nelle zone fumose di China Town, ha tutta un'altra dimensione antropologica: come del resto i calamari arancioni esposti nelle vetrine dei ristoratori orientali. Sono veri o no? Non l'ho mai capito. Dubbi urbani pervenuti dal Celeste Impero.
1) I love Hawley. A pub wherein upstairs is playing a Stone Roses album and downstairs, in the gentleman toilette, those of Bob Marley. In the heart of Camden and below the gray skies of the global city. What else? 2) I found out that the tube map, in the smoky areas of China Town, holds a completely different anthropological meaning: as much as the orange squids displayed in the shop windows of Oriental restaurants. Are they real or not? To be honest, I've never understood. Urban doubts received from the Celestial Empire.
Covent Garden, 16st may of 2013
"Dal Mali al Mississipi". Un film documentario di Martin Scorsese che guarda alle radici della musica blues nel delta del fiume Mississippi e in Africa. A volte queste radici nere affondano nelle vene della metropoli globale. Nel torpore gelante della primavera londinese, al Blues Bar sopravvive una sfera di calore chiamata Southern Comfort. Il blues nero del Mississipi.
"From Mali to Mississippi." A documentary edited by Martin Scorsese that looks at the roots of blues music in the delta of the Mississippi River and in Africa. Sometimes these black roots drives into the veins of the global metropolis. In the frigid torpor of the London spring, at the Blues Bar survives an heat sphere called Southern Comfort. The black blues of the Mississippi.
domenica 28 aprile 2013
London.
While I am walking through its streets, I often fell myself like
rolled up into a persistent reflection: everything that you would
like to know about the world, can be simply found on the streets of
this endless metropolis.
Do you need to find out the kallun's recipe?
You
have just to ask
at the Somali barber downstairs. Do you want to understand more about
the artistic evolution of David Bowie? Just go to the exhibition
dedicated to him at the Victoria and Albert Museum. Your urgency is
related to know where and how the Crisis has been developed? Just wonder around Canary Wharf on Friday afternoon and try to spend a
part of your time observing the bankers behavior.
London is a huge
search engine of human species: get the right way and your curiosity
will be drained. Therefore, in this situation internet is not
essential to find correct answers related to the question that could
come up in your mind. In fact, it just needed to investigate the
sparkling life of the megalopolis, because the matching responses are
piled up in its every corner.
The cloudy sky of London! I spend few
minutes a day observing this phenomenon with astonishment, and his
ostentatious self-confidence every single second irritates me. It
never stands aside: always asleep on the heads of Londoners. However,
which is the real role of this everlasting gray roof in London
bio-social lifetime? Sometimes I think that all of these clouds works
like a view stopper, so that no one could be fascinated by a blue sky
in which gently slip the mind. The metropolis does not allow
distractions.
In one hand London responds with its global urban
essence to all the questions imaginable; in the other hand London
pretends an absolute devotion to its real soul: make money. Sunny
weather could mean natural slowness and carelessness. Therefore, its
climate, perpetually angry with the entire world, is the price to pay
for living in this global network of humanity. Once in Baker Street
Station. I step on the tube, minding the gap. Of course!
The wagon
was strangely uncrowded. Suddenly, a captivating melody comes from my
right side. I turned my attention to understand who are the stars of
this sound. Meanwhile, the tube was running stubborn towards Finchley
Road. Sitting next to each other, four children was reciting the
Quran in Arabic, going back and forward as is often shown in the
newscast. A completely veiled woman noticed them to not get
distracted and go on to paying homage to the Prophet of the desert.
Although the wagon seemed to be a madrasa of Karachi, I finally
arrive to Kilburn station. The West. Or maybe a new kind of West.
Probably, we are already in the future of an universal melting pot.
London. I headed to Kilburn High Road. The colors of the metropolis
take form again in front of me. All the answers stand on the
sidewalks of this huge city. But we are ready to ask questions?
Londra. Camminando per le sue strade mi trovo spesso arrotolato dentro una persistente riflessione: ogni cosa che c'è da conoscere sul mondo si trova sulle vie di questa infinita metropoli. Vuoi scoprire la ricetta del kallun? Basta informarsi dal barbiere somalo sotto casa. Vuoi comprendere maggiormente l'evoluzione artistica di David Bowie? Basta andare alla mostra a lui dedicata al Victoria and Albert Museum. Hai urgenza di conoscere dove e come si è sviluppata la Crisi? Basta gironzolareper Canary Wharf il venerdì pomeriggio e osservare il comportamento dei banker.
Londra è un enorme motore di ricerca sull'umana specie. Basta andare nel posto giusto e la propria curiosità viene prosciugata. Non c'è bisogno di internet per trovare le risposte ai quesiti più strani. Difatti basta semplicemente indagare la pullulante vita della megalopoli: in quanto le risposte giuste sono ammucchiate in ogni suo angolo.
Il cielo nuvoloso di Londra. Lo osservo sempre con stupore. La sua ostentata sicurezza mi irrita. E' sempre lì. Addormentato sulle teste dei londinesi. Ma che funzione opera questo perenne tetto grigio rispetto alla vita bio-sociale di Londra? A volte penso che tutte queste nuvole fanno da tappo affinchè nessuno possa lasciarsi incantare da un cielo azzurro in cui far scivolare dolcemente la mente.
La metropoli non ammette distrazioni. Londra risponde col la sua essenza urbana a tutte le domande possibili e immaginabili. Ma pretende una fedeltà assoluta alla sua natura: il business. E sole significa lentezza e naturale spensieratezza. Per tanto il suo clima perennemente arrabbiato col mondo è il prezzo da pagare per vivere nella rete globale dell'umanità. Dove sulla metro ti trovi seduto vicino a qualunque tipologia di essere umano.
Un giorno. Baker Street Station. Salgo sulla tube facendo attenzione allo scalino. Il vagone è stranamente poco affollato. Improvviso, un soave canto voce giunge dalla mia destra. Volgo lo sguardo verso le melodie per capire chi sono i protagonisti di questo spettacolo sonoro. Nel frattempo la tube corre ostinata verso Finchley Road. Seduti tutti uno accanto all'altro, quattro bambini stanno recitando il Corano in arabo, andando avanti e indietro come spesso si vede nei filmati dei telegiornali. Una donna completamente velata sembra intimare loro di non distrarsi e continuare ad omaggiare il Profeta del deserto.
Nonostante il vagone sembra essere diventato una madrasa di Karachi arrivo a Kilburn station. Occidente. O forse Medio-Occidente. Probabilmente siamo già nel futuro del meticciato universale. Londra. Mi dirigo verso Kilburn High Road. I colori della metropoli riprendono forma. Tutte le risposte sono sui marciapiedi di questa enorme metropoli. Ma siamo pronti a fare delle domande?
giovedì 28 febbraio 2013
In un articolo uscito per il
settimanale Internazionale in cui viene
analizzata la funzione del M5S nella politica italiana, il collettivo letterario
Wu Ming sostiene che “ora che il
grillismo entra in parlamento, votato come extrema ratio da milioni di persone
che giustamente hanno trovato disgustose o comunque irricevibili le altre
offerte politiche, termina una fase e ne comincia un’altra. L’unico modo per
saper leggere la fase che inizia, è comprendere quale sia stato il ruolo di
Grillo e Casaleggio nella fase che termina. Per molti, si sono comportati da
incendiari. Per noi, hanno avuto la funzione di pompieri ”.
Il nocciolo
della questione secondo Wu Ming è quindi comprendere se l’avvento del M5S abbia
sottratto l’Italia da tipologie di conflitto radicale come quelle verificatesi
in Grecia o Spagna; con l’effetto conseguente di convogliare la protesta dei
cittadini entro i confini della dialettica democratica e della competizione
elettorale. Per valutare se il M5S sarà o meno un fattore di stabilità
sistemica dovremo attendere l’evolversi del magmatico quadro politico.
La sola realtà
oggettiva inequivocabile resta una: va rispettato l’esito delle urne. Anche dal
punto di vista culturale e non solo procedurale. Per tanto un parere su quello
che accadrà potrà essere definito solo quando vedremo all’opera i nuovi eletti.
Di tutti gli schieramenti. Durante la campagna elettorale interessanti spunti
di riflessione sono pervenuti dalla stampa estera.
Il premio Nobel dell’Economia
Paul Krugman, sull’International Herald
Tribune del 27 febbraio 2013, scrisse che il suffragio in Italia avrebbe
avuto il carattere di un referendum sulle politiche di austerità dettate
dall’Europa e personificate dall’osmotico duetto Merkel-Monti. Il giornalista
economico per l'Europa del Financial
Times Wolfgang Munchau, è stato invece un forte critico delle ricette
economiche del Montismo. La sua analisi
si basa essenzialmente sulla constatazione che il governo Monti è stato, ancora
una volta, uno dei governi europei che ha sottovalutato le conseguenze negative
dell'austerità: probabilità di una durevole e profonda recessione, la
disoccupazione in aumento, produzione decrescente e fiducia delle imprese ai
minimi.
Un’alternativa a questo scenario poteva essere rintracciata nella tesi
di un aggiustamento strutturale del quadro macroeconomico europeo condiviso tra
paesi debitori e paesi creditori. Ma chi, durante la campagna elettorale, si è
fatto portatore di questa linea in modo chiaro e credibile?
Ingroia ci ha
sicuramente provato, ma con scarsi risultati dovuti forse alla sua eccessiva insistenza
su tematiche legate alla giustizia e alla corruzione. Berlusconi ha adoperato
la carta del populismo antieuropeista denotando la Germania come la fonte di
ogni male, ma pochi gli hanno creduto: sono ormai lontani i tempi del “sono uno di voi” di vicentina memoria
imprenditoriale. Bersani, dal canto suo, non ha saputo concretizzare dal punto
di vista della comunicazione politica una volontà brillante nel sostenere un’alternativa,
anche radicale, all’austerità, ovvero all’egemonia culturale del Montismo. In tal senso, la sola presenza
di Vendola e Fassina non è servita a convincere l’elettorato “last minute”, il quale è poi risultato
decisivo nei flussi di voto.
Il politologo Ilvo Diamanti misura in un rapporto
di un elettore su dieci la consistenza di questa tipologia di – decisivi – incerti,
i quali hanno scelto per chi votare solamente l’ultimo giorno; optando quasi
sicuramente per il M5S e la sua radicale capacità di impersonare il vento del
cambiamento. Per ora i mercati hanno reagito male. Il voto, ma ancor di più la
realtà della vita quotidiana delle persone, ci conferma che il rigore
tecnocratico prescritto ai paesi mediterranei dell’area euro non è più sostenibile.
I cittadini hanno indicato il M5S come il messaggero delle istanze di questo
disagio tangibile. In questo quadro bisognerà trovare l’equilibrio tra
stabilità interna e governance
europea. E non è facile. In gioco c’è la moneta unica e il futuro dell’Europa
politica. La Sardegna tra un anno sarà chiamata alle urne per decidere il più
importante governo della storia dell’Autonomia.
Da quanto appena accaduto bisognerà
ripartire per costruire un governo stabile che abbia chiaro un obiettivo,
ovvero che la Sardegna, per uscire dalla crisi, necessita di poteri di sovranità,
di una nuova soggettività internazionale e di partiti con testa, gambe e cuore
nell’Isola.
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